PTG: innovazione o voyeurismo?

Medici e GoogleCon la diffusione di Internet i medici ricorrono sempre più spesso al PTG (da patient-targeted googling), pratica che prevede l’inserimento del nome del paziente (ed eventualmente di altri dati) in un motore di ricerca generalista, quale potrebbe essere appunto Google, al fine di ricavare informazioni personali. Questo tipo di ricerca, che potrebbe essere vista come una forma di violazione del rapporto medico-paziente, viene raramente confessata da parte del personale sanitario.

Ma per quale motivo un professionista dovrebbe ricercare informazioni sui propri pazienti? E – indipendentemente dalle motivazioni – può essere questa considerata una pratica accettabile ed eticamente corretta?

Ovviamente una risposta soddisfacente “all-around” non esiste.

Secondo uno studio pubblicato sull’Harvard Review of Psychiatry gli specialisti in psichiatria sarebbero i più propensi al PTG: questo consentirebbe loro di investigare in modo discreto sui propri pazienti per estrapolare tracce di ideazioni suicidarie, di forme di autolesionismo o abusi di sostanze, specie nell’era dei blog, dei social e dei forum di aiuto – cosa comunque difficile vista la possibilità di rifugiarsi dietro un nick anonimo. Ancor più rara, ma comunque plausibile specie in determinati ambienti, potrebbe essere l’eventualità di dover ricercare informazioni su un paziente incosciente o poco collaborante del quale sia noto solamente il nome, e da lì partire per avere informazione su storia, conoscenti e familiari.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i medici sarebbero mossi semplicemente da curiosità e voyeurismo: questo viene ovviamente percepito come una grave violazione della privacy, sebbene alcuni potrebbero addirittura risultarne piacevolmente e stranamente colpiti sapendo, nel bene e nel male, di essere tra i pensieri e gli interessi del medico anche dopo che hanno lasciato l’ambulatorio.

Nello studio gli autori cercano di dare delle risposte e consigli su come comportarsi, in quanto ovviamente non esiste una normativa specifica e tutto rientra in un delicatissimo miscuglio di privacy, etica, necessità professionale e voyeurismo. Il modo più semplice per dipanare ogni dubbio è quello di interrogarsi sinceramente sul perchè si stanno ricercando informazioni, se la ricerca viene svolta nell’interesse del soggetto e se questo comunque potrebbe avere delle ripercussioni sul rapporto di fiducia medico-paziente.

Alcuni suggeriscono di chiedere il permesso direttamente al paziente, mentre per altri autori questo non sarebbe necessario in quanto le informazioni sono già di pubblico dominio oppure perché non è sempre possibile fare la richiesta, specie nel caso di pazienti non collaboranti o incoscienti.

A mio avviso, se è vero che le informazioni sono di pubblico dominio, non è altrettanto vero che queste possano comunque essere raggiunte facilmente da chiunque. Chi utilizza il nome e cognome di un paziente, unito ad altri elementi come il volto (che può essere riconosciuto nelle foto), l’indirizzo, il numero di telefono, le informazioni sull’attività lavorativa, sportiva e la storia passata in generale, ha molte più possibilità di accedere ad informazioni che sono sì di pubblico dominio, ma difficilmente estrapolabili se non con la giusta “chiave” di lettura. Ecco perchè la scusa del “pubblico dominio” non regge quando si ha a che fare con mere spinte voyeuristiche.

Per essere sicuri di non fare errori e di essere in regola con la coscienza, forse l’unica cosa da chiedersi di fronte alla tentazione di pagina Google vuota è: “lo sto facendo nell’interesse del paziente?”.

Cambiano i costumi, l’etica e gli strumenti, ma il “primum non nocere” e la salvaguardia della salute rimangono capisaldi senza spazio e senza tempo.