Dianne Odell

“Comincia a piovere” disse Freeman Odell, scostando le tendine della finestra.
Era buio da qualche ora, ma il temporale si era palesato all’orizzonte già dal tardo pomeriggio.
Schermando la luce della camera con le mani cercò di guardare oltre il vetro, e nel farlo lanciò uno sbuffo di condensa con il naso.
Fece un paio di passi indietro e si girò verso Dianne, abbozzando un sorriso stentato per dissimulare la propria preoccupazione.
Dianne, non senza fatica, tirò indietro la testa e roteò gli occhi verso l’alto, ricambiando lo sguardo e il sorriso.
Era abituata a guardare il padre camminare sottosopra. E si era da tempo rassegnata a non vedere più le cose per come sono realmente.
Tutto il suo mondo era capovolto. Sia quando ruotava la testa all’indietro, sia quando osservava le persone attraverso lo specchio montato davanti al viso. Solamente la televisione, che a volte prendeva il posto dello specchio, era ben dritta davanti a lei. Ma gli schermi, si sa, proiettano immagini di realtà ancor più lontane, distorte, filtrate.

Un tuono, in lontananza.

Freeman si calò lentamente sulla vecchia poltrona, accanto a Dianne. Sedeva lì, ogni giorno, da quasi sessant’anni. Era stanco, vecchio, malato, eppure ricordava ancora con deprimente lucidità il giorno in cui Dianne si ammalò. Nella sua mente erano ben scolpiti i lamenti, la spossatezza, il dolore alle gambe, il fiato che le veniva a mancare. La sua incredulità quando, per la prima volta, i dottori lo accompagnarono davanti al polmone d’acciaio: 350kg di freddo metallo che in un attimo divorarono la sua bambina.
All’epoca Dianne aveva soltanto 3 anni.
“Rimarrà nel polmone solo per alcune settimane”, dissero.
Per molti dei bambini ricoverati con lei, in effetti, le cose andarono proprio così. Alcuni ricominciarono a respirare da soli. Altri morirono prima ancora di poter lasciare l’ospedale.
Dianne, invece, entrò nel polmone e non ne uscì mai più.
Mai.
Da sessant’anni il grosso cilindro di metallo respirava con lei e per lei.
Era nata troppo presto: solo pochi anni dopo, grazie alle vaccinazioni, la polio sarebbe diventata piano piano una malattia da dimenticare. Strana cosa, il destino.

Un altro tuono. Forte, vicino. I vetri tremarono.
“Va’ a letto, Freeman”, disse il cognato di Dianne.
“No. Preferisco stare qui.”
“Posso stare io con Dianne, se vuoi”
“No. Non preoccuparti”
“Allora resto qui con voi.”
Si compresero al volo. Uno scambio di sguardi fece volare la mente dei due a quella maledetta notte di pochi anni prima.
La pioggia scendeva forte, implacabile. Uno scroscio incessante amplificato dalla veranda, che faceva da cassa di risonanza.
Dianne muoveva la testa all’indietro facendo oscillare gli occhi tra il lampadario, le tende e il soffitto, a tratti rischiarato dai lampi. Avrebbe voluto addormentarsi, ma non ci riusciva.
Freeman reclinò la testa sulla poltrona e chiuse gli occhi. Ascoltava. Ascoltava il rumore del proprio respiro, il battito del cuore, il rumore della pioggia, la pompa del polmone d’acciaio. Nel buio giocava con i suoni, li impastava tra loro, li rimescolava cercando melodie e ritmi nascosti. La pioggia, a momenti, sembrava quasi che volesse parlargli.

Successe tutto in un attimo.

Un lampo illuminò a giorno la stanza. Prima ancora di essere investito dal tuono, Freeman aprì gli occhi si accorse che il polmone d’acciaio aveva smesso di fare rumore.
“La corrente! E’ saltata la corrente!” gridò.
Dianne girò gli occhi cercando nel buio quelli del padre, che nel frattempo le era saltato vicino appoggiandole una mano sul viso.
“Il generatore! Adesso parte il generatore, tranquilla!”
Uno, due, cinque secondi.
Ancora silenzio.
Gli occhi di Diane erano lucidi e guizzanti nel buio rischiarato a tratti dai lampi. Cercava aiuto, ma non poteva gridare.
“Vado a vedere!” disse il cognato.
“No, vado io, tu sta’ con lei”.
Freeman corse fuori dalla stanza, e spalancò la porta d’ingresso principale. Non vedeva nulla, ma sapeva bene come muoversi. Passando prima sotto la veranda e poi sotto l’acqua scrosciante, raggiunse il generatore sul retro della casa. Era spento. Maldedettamente spento. Il generatore che era stato donato qualche anno prima alla famiglia, proprio dopo un blackout simile, non funzionava.
Freeman premette tutti i pulsanti, girò gli interruttori. Dapprima con criterio, poi cominciò a colpirli a caso.
Nulla.
Qualcosa era andato storto, certo. Ma non c’era tempo per farsi troppe domande. Tornò dentro imprecando.
Dianne non respirava da un minuto e mezzo. Il suo volto si era tumefatto e deformato in una smorfia di sofferenza.
Nel frattempo il cognato aveva acceso una torcia elettrica e aveva cominciato a darsi da fare con la leva della pompa manuale. Il polmone di acciaio era fortunatamente provvisto di un meccanismo di emergenza per far fronte a situazioni come questa.
Avanti, indietro. Uno, due.

Thump.
Thump.
Thump.

“Dammi qua” gridò Freeman lanciando a terra il cappello.

THUMP.
THUMP.
THUMP.

Il viso di Dianne cambiò lentamente colore. Rosso, violaceo, bluastro.
Gli occhi lucidi, piccoli, guizzavano tra il soffitto, il padre e il cognato. L’immenso sforzo dei due si risolveva in un esiguo e insignificante alito d’aria, troppo debole per poterle distendere i polmoni.
Chi è in procinto di affogare, finisce per aspirare acqua nell’inane tentativo di appagare la propria fame d’aria.
A Dianne non fu concesso neanche questo. Non un uno spasmo, o un singulto. Solo silenzio.
Aveva a disposizione tutta l’aria del Tennessee, quella notte. Era tutta lì, per lei. Fresca, umida e dannatamente immobile sulla bocca, nelle narici.
Sarebbe bastato così poco.

Thump.
Thump.
Thump.

Il padre gridò, tirando avanti e indietro la leva con tutta la forza che gli era rimasta in corpo. Guardò Dianne, ormai immobile e con gli occhi spalancati e rivolti verso di lui.
“Freeman…” disse il cognato, afferrandolo per un braccio. Il vecchio lo cacciò con una spinta.
Dianne aveva perso conoscenza da più di dieci minuti. Il suo cuore aveva smesso di battere, soffocato dall’inerzia di ciò che l’aveva tenuto in vita.
Freeman continuava ad agitare la leva con un impeto sovraumano: Avanti, indietro. Uno, due.
La camicia a quadri con i bottoni strappati, i denti serrati, un ciuffo di capelli bagnati di pioggia e lacrime lungo il viso.

La pioggia cominciò a farsi più leggera.

Gli occhi di Freeman guardavano la figlia, ma la sua testa e il suo cuore non vedevano più nulla.

Era la sua bimba, quella.
La sua bimba.

E hanno detto che rimarrà là dentro solo per poche settimane.

Thump.
Thump.
Thump.

https://en.wikipedia.org/wiki/Dianne_Odell