La lateralizzazione del linguaggio: dalle teorie di Hickok e Poeppel all’evoluzione della riabilitazione

Nel suo nuovo libro, Wired for Words, Hickok racconta un percorso di ricerca che non è solo scientifico, ma quasi biografico: anni passati a interrogarsi su ciò che diamo per scontato sul linguaggio, fino ad arrivare a una conclusione che ribalta un secolo e mezzo di tradizione. Il linguaggio non è dominato dall’emisfero sinistro…o almeno non lo è nel modo in cui abbiamo creduto per decenni. E questa intuizione, maturata insieme al collega David Poeppel, ha conseguenze dirette per chi, come me e tanti altri colleghi, si occupa di persone che hanno perso la parola a causa di un ictus o di una lesione cerebrale.

L’estratto pubblicato su The Transmitter si concentra proprio su questa collaborazione. Hickok ricorda bene quanto fosse scettico, all’inizio, di fronte all’idea di Poeppel che la percezione del parlato potesse essere bilaterale. Aveva interiorizzato e cristallizzato il modello classico di Broca, Wernicke e del fascicolo arcuato come ponte obbligato tra comprensione e produzione. Se il linguaggio è prerogativa dell’emisfero di sinistra, perché insistere sulla partecipazione dell’emisfero destro?

La risposta, racconta Hickok, stava nelle evidenze e nei dati. Non in un singolo esperimento, ma in una serie di incongruenze che a partire dagli anni novanta cominciavano a diventare troppo grandi per essere ignorate. Gli studi PET mostrati nelle prime ricerche sul linguaggio erano spesso contraddittori. Cambiavano il compito, cambiava l’attivazione. Bastava spostare l’attenzione del soggetto, modificare leggermente il materiale sonoro o la modalità di risposta, e l’apparente mappa del linguaggio si trasformava.

Il passaggio centrale dell’estratto pubblicato su The Transmitter è illuminante. Hickok racconta come, andando a rivedere sistematicamente gli studi e confrontandoli con i casi clinici, fosse chiaro che il linguaggio non si comportava come una funzione rigidamente lateralizzata. Alcuni pazienti con lesioni dell’emisfero sinistro, anche molto ampie, avevano difficoltà nella produzione linguistica ma conservavano buona parte della comprensione acustica. Altri, con lesioni destre, mostravano invece deficit nella prosodia (“intonazione”) e nel ritmo del parlato, pur mantenendo strutturalmente intatta la capacità di riconoscere i fonemi. La “word deafness”, la sordità verbale pura, compariva quasi solo in presenza di danni bilaterali, non semplicemente con una lesione sinistra.

Questo, che per noi clinici è evidente a livello empirico, aveva finalmente una cornice teorica coerente: la percezione del parlato è bilaterale. Entrambi i lobi temporali partecipano alla decodifica dei suoni linguistici. L’emisfero sinistro non è l’unico custode della lingua; è parte di una rete più ampia, con funzioni diverse e complementari. La differenza tra destra e sinistra riguarda soprattutto i livelli successivi: la sintassi, la struttura grammaticale, la pianificazione fonologica. Ma la base percettiva, quella che permette di distinguere i suoni e riconoscere la parola come parola, è distribuita.

Questa evoluzione teorica non è accademica: ha trasformato il modo in cui oggi pensiamo alla riabilitazione dell’afasia. Se la percezione fonetica è bilaterale, l’afasia non è più il collasso di un centro unico, ma la disorganizzazione di una rete. E una rete può riorganizzarsi, può deviare il flusso delle informazioni, può usare vie alternative.

È esattamente ciò che osserviamo quando vengono utilizzati interventi come la Melodic Intonation Therapy (MIT, una tecnica adottata in neuromusicoterapia). La MIT funziona perché sfrutta una porta laterale: richiama l’emisfero destro attraverso il canto, la melodia, la prosodia. Non obbliga il paziente ad attivare la via classica, quella sinistra, compromessa dall’ictus, ma gli permette di appoggiarsi a risorse meno vulnerabili. La musica, il ritmo e la scansione sillabica diventano strumenti per riaprire la comunicazione.

Allo stesso modo, la via dorsale descritta da Hickok – quella che collega percezione e articolazione – rappresenta la base teorica della riabilitazione sensomotoria. Lavorare sulla ripetizione, sul feedback uditivo, sulla precisione articolatoria significa intervenire direttamente sui circuiti che integrano ciò che sentiamo con ciò che diciamo. È lo stesso sistema che usiamo naturalmente quando correggiamo la pronuncia di una parola o quando, parlando, aggiustiamo automaticamente il nostro volume o la nostra intonazione.

Infine, la consapevolezza che il linguaggio sia distribuito ha valorizzato anche le terapie più ecologiche, quelle che lavorano sulla comunicazione reale, non sulla ripetizione isolata. Parlare in contesto attiva attenzione, memoria, movimento, prosodia: tutte funzioni che abitano emisferi diversi e che possono compensarsi a vicenda.

La parola non è un luogo del cervello, ma è una rete complessa e resiliente. Ed è proprio questa resilienza che rende possibile il recupero. La riabilitazione moderna del linguaggio esiste perché il cervello non ha un unico centro linguistico: ha un sistema. E un sistema, quando viene lesionato, può trovare un nuovo equilibrio.